L’Arte dell’Accoglienza: quando una Chiesa diventa Casa

C’è un momento che si ripete ogni domenica nelle nostre chiese: qualcuno varca la soglia. A volte con passo sicuro, altre volte esitando. Potrebbe essere un fedele abituale, o forse – ed è questo che rende quel momento così prezioso – qualcuno che non metteva piede in chiesa da anni. O che non ci è mai entrato prima.

Come lo accogliamo?

La domanda non è banale, perché da quel primo istante può dipendere molto: la percezione di essere nel posto giusto o sbagliato, di sentirsi a casa o fuori luogo, di voler restare o di andare via annoiato non appena se ne ha l’occasione.

L’accoglienza è un’arte sottile, un equilibrio delicato tra presenza e discrezione: ne facciamo esperienza ogni volta che entriamo in un contesto nel quale non ci identifichiamo. E dal tipo di accoglienza che riceviamo dipende come valutiamo quell’esperienza e se vorremo ripeterla.

Oltre l’organizzazione: il cuore dell’accogliere

Troppo spesso confondiamo l’accoglienza con l’efficienza organizzativa. Possiamo organizzare “squadre di accoglienza”, distribuire compiti e trasformare un gesto naturale in un servizio strutturato. Il rischio è di perdere l’essenziale.

Chi entra in chiesa – soprattutto se è in ricerca o non è un frequentatore abituale – non ha bisogno di essere “gestito”. Ha bisogno di essere visto. Riconosciuto. Atteso.

L’accoglienza autentica inizia molto prima che qualcuno varchi la soglia. Non è questione di tecniche o strategie. Inizia da come la comunità si pensa, da come si prepara e si dispone a fare spazio all’altro.

È questione di sguardo. Di cuore.
È la capacità di riconoscere in chi entra un fratello o una sorella che torna a casa. O che cerca una casa.

Per creare un clima accogliente non servono gesti eclatanti.

L’accoglienza vera è fatta di piccole attenzioni. Un sorriso non forzato. Una presenza discreta che dice “se hai bisogno, ci sono”. Un foglietto della messa offerto senza far sentire l’altro ignorante. L’invito a occupare un posto libero in un banco, che non fa sentire l’ultimo arrivato un intruso.

E, se ne intuiamo la possibilità, il provare ad aprire un dialogo sereno.

Piccoli gesti che dicono: ti aspettavamo.

Il rispetto dei tempi e degli spazi

C’è una tentazione sottile nell’accoglienza: quella di voler subito “agganciare” chi arriva, di volerlo inserire nei nostri gruppi, nelle nostre attività, nei nostri schemi. È una tentazione da respingere. L’accoglienza vera sa aspettare. Sa che alcuni hanno bisogno di stare sulla soglia a lungo prima di lasciarsi coinvolgere. E rispetta i tempi dell’altro.

La vera accoglienza sa anche farsi da parte. Non invade. Non assilla. Crea spazi di libertà. Permette all’altro di mantenersi “a distanza di sicurezza”, se è quello di cui ha bisogno in quel momento. O semplicemente di stare in silenzio. Una chiesa che accoglie è una chiesa che non ha paura dei silenzi, delle domande, persino dei dubbi.

Sa che l’incontro con Dio ha i suoi tempi. E anche l’incontro con la comunità. E li rispetta.

La maturità di una comunità che accoglie

Questo stile di accoglienza richiede una comunità matura, che non si sente minacciata da chi è diverso, da chi pensa diversamente, da chi è in ricerca. Una comunità sicura della propria identità ma non rigida. Aperta ma non invadente. Capace di fermezza e tenerezza insieme.

L’accoglienza più profonda passa attraverso l’atmosfera che si respira in chiesa. Non servono cartelli o slogan. Serve che chi entra percepisca nell’aria un calore inaspettato. Un clima di pace. Di autenticità. Di preghiera vera. Le persone – soprattutto chi non frequenta spesso la chiesa – hanno un fiuto particolare per l’autentico. Sentono se una comunità prega davvero o se recita formule. Se vive davvero la fraternità o se la proclama soltanto.

E sono tante le persone che possono rimanere toccate da un clima così:

  • chi non va mai in chiesa ma in quel momento ne sente il bisogno, magari senza neppure capirne il perché;
  • chi arriva una volta all’anno in occasione della Messa celebrata per i propri defunti;
  • chi viene in chiesa da una vita e magari abita a due passi da noi, ma non si è mai sentito chiamato per nome e noi non ci siamo mai accorti della sua presenza;
  • quella famiglia africana o sudamericana, ucraina o polacca, che ha conservato una fede forte e che sente la mancanza di un legame profondo con la propria comunità di origine, e sarebbe felice di sentirsi vista e accolta con sincera curiosità e amicizia.

Dall’agire all’essere: la chiesa come casa

A volte ci preoccupiamo troppo di “cosa fare” per accogliere. La vera domanda è “come essere” accoglienti. È una questione di conversione dello sguardo. Di capacità di vedere in ogni volto nuovo non un problema da risolvere ma un dono da accogliere. Un mistero da rispettare.

La chiesa diventa casa quando smette di preoccuparsi di riempirsi e inizia a preoccuparsi di fare spazio. Spazio fisico, certo: una chiesa ordinata, pulita, con una buona acustica, con una temperatura adeguata. Ma soprattutto spazio spirituale: un’atmosfera dove ognuno può sentirsi libero di essere se stesso davanti a Dio.

L’accoglienza che si fa trasparente

L’accoglienza più genuina, alla fine, è quella che sa farsi trasparente. Che non attira l’attenzione su di sé ma la orienta verso Colui che tutti cercano quando varcano la soglia di una chiesa. Anche senza saperlo.

Il nostro sogno è costruire una comunità che fa sentire tutti a casa in modo naturale, una comunità il cui modo di essere aperto, sorridente e accogliente trasmette senza parole un invito leggero ma attraente, come quello che quel giorno Gesù rivolse ad Andrea e all’altro discepolo: “Venite e vedrete” (Gv 1,39).

Una comunità desiderosa di costruire relazioni serene, attraverso le quali potrà condurre per mano, con rispetto e speranza, chiunque vorrà accogliere l’invito di Dio a conoscerlo e ad amarlo.

Ed è questo, alla fine, il senso più profondo dell’accoglienza: creare spazi dove l’incontro con Dio diventa possibile.